Ho sempre avuto l’insana abitudine di leggere due libri in contemporanea, cercando di alternare generi e stili di scrittura.

Negli anni 90 fu il turno di “La fine del Lavoro” di Jeremy Rifkin e “La strada che porta a domani” di Bill Gates contravvenendo scientemente alla regola di alternare gli argomenti. Testi che ho trovato, de facto, perfettamente sovrapponibili sia nei contenuti che nello stile.

L’uno decreta la fine dei lavori tradizionali e del modello delle relazioni industriali conosciuto sin lì, l’altro conduce alla rappresentazione di nuove figure professionali in un contesto tecnologico di assoluta novità, in grado di modificare processi e sistemi, tempi e metodi, relazioni industriali e l’organizzazione del lavoro di ciascuno di noi. Si è visto. Si è realizzato quasi tutto. Questi due testi sono stati scritti da due americani, due outsider nei rispettivi campi.

L’abbinamento dei due testi fu una scelta illuminante perché da quel momento iniziai ad occuparmi di sviluppo in chiave sostenibile che ha cambiato in modo radicale la mia visione del mondo e della politica economica e industriale. All’epoca lavoravo negli Stati Uniti in un cantiere della Carolina del Sud, terra generosa e rigogliosa, dove si produceva PTA, plastiche e derivati. Proprio lì, per la prima volta, appresi della possibile combinazione tra industria e rispetto dell’ambiente, tra produzione, sviluppo, consumo e sostenibilità ambientale. Detta in breve, l’investitore americano ricevette dalle autorità locali la concessione a costruire solo a condizione di rispettare l’eco-sistema del territorio attraverso un ampio programma pluriennale di riforestazione ed una partnership con i centri di ricerca locali a tutela della protezione delle specie animali. Era il 1996.

Appena qualche anno prima, il prof. Giuseppe Catturi pubblicava: “Produrre e consumare, ma come? – verso l’ecologia aziendale” ove venivano tracciate le linee di ciò che l’Impresa oggi, a distanza di quasi 30 anni, persegue nell’interesse non solo dei tre assi di cui si compone la sostenibilità – profitto, ambiente, società – ma anche per la propria sopravvivenza e per rispondere alle esigenze dei consumatori, degli investitori, dei mercati, della finanza. Il testo era propedeutico all’esame di Economia aziendale, per l’epoca una rivoluzione del pensiero economico aziendale, tant’è che in prefazione l’autore non si esimeva dal denunciare come gli studiosi dell’epoca non ritenessero opportuno contribuire all’assunzione di posizioni culturali o di provvedimenti normativi da indicare ai decisori politici, poiché convinti che le indagini di tipo aziendale necessitassero di un quadro di riferimento definito, ortodosso, piuttosto che di ipotesi ancora all’epoca non concrete.

Mi valgano, queste brevi considerazioni di apertura, per affrontare un tema caro a molti di noi, non solo in veste di addetti ai lavori, ma in virtù di una visione organicistica delle singole realtà aziendali, riconoscendo loro la caratteristica strutturale in una comunità di individui che in modo coordinato e sistemico operano la soddisfazione dei bisogni sociali e ambientali, ove l’autorità pubblica possa svolgere un’azione armonizzatrice di tali dinamiche a garanzia del futuro.

Di recente arrivano segnali realmente incoraggianti. Cito un episodio che ha fatto scalpore negli USA in epoca trumpiana e che permette un facile collegamento con quanto scritto. La Business Roundtable, gruppo lobbista composto dagli amministratori delegati delle principali aziende americane ha annunciato di voler soddisfare le aspettative dei propri clienti, perfino superandole, con un approccio responsabile verso il sociale e l’ambiente. Hanno deciso di fare questo attraverso un piano di formazione senza precedenti sulla sostenibilità ai propri dipendenti in modo che possano sviluppare nuove competenze e trasferirle nel lavoro così come nell’intera filiera produttiva attraverso il rapporto con fornitori e prestatori di servizi rendendo il processo ad impatto esponenziale. Questa dichiarazione è stata letta da molti osservatori come un importante cambio di passo ed un ritorno a principi di buon senso anche da parte dei più scettici a detta di Judy Samuelson, direttore generale del programma Business and Society dell’Istituto Aspen o di Jamie Dimon, CEO di JPMorgan. E anche il mondo politico ora vuole intervenire, Elizabeth Warren, candidata alle presidenziali propone la firma dell’Accountable Capitalism Act da parte delle più grandi aziende americane di industria e finanza con l’impegno concreto ad occuparsi degli interessi di tutti i portatori di interesse.

Tutto ciò ci riporta indietro nel tempo quando il nostro professor Catturi invocava la regolamentazione dei comportamenti responsabili aziendali da parte del legislatore.

Un’ipotesi concreta è quella di normare l’obbligo di considerare l’ambiente non solo nelle determinazioni computistiche sui consumi quanto piuttosto come risultante della diffusione di una cultura che attribuisca un preciso valore all’impatto di ciascuna produzione, rendendo obbligatorio per ogni impresa l’accantonamento a bilancio di un fondo da utilizzare nella ricerca di soluzioni ai problemi di impatto ambientale che via via si presentano.

E’ questo il caso del gruppo LVMH che realizza questi accantonamenti già dal 2014, ma è un impegno ancora volontaristico e non obbligatorio.

In conclusione, per raggiungere finalmente l’obiettivo di pieno Sviluppo Sostenibile ad opera di un intero sistema Paese occorre un cambio di rotta da parte di tutti i soggetti, da parte delle aziende di ogni settore produttivo in ottica di economia circolare, sollecitati dai clienti in grado di indirizzare i consumi, con l’ausilio di uno Stato regolamentatore, e delle Associazioni industriali e sindacali in grado di monitorare e verificare l’applicazione del modello. Lo scenario economico-aziendale potrà raggiungere, pertanto, una dimensione sempre più vasta, consentendo la conferma dell’esistenza di ulteriori “fattori della produzione” da aggiungersi ai classici – terra, lavoro e capitale – e cioè le risorse del pianeta, il welfare e la capacità imprenditoriale di non prescindere da essi nell’organizzazione dei processi.

Riorganizzare le priorità civili, regolamentare la visione della Sostenibilità a lungo termine, dotarci di una governance che orienti le politiche allo sviluppo sostenibile, sistemizzare e non disperdere, non far cadere i segnali evidenti di transizione verso un modello economico rigenerativo, circolare, sostenibile, queste le probabili sfide del prossimo futuro.

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